La Rivista

 

 

 

 

 

 

EDITORIALE

  

Sviluppo economico, paesaggio, identità

 

 

 

 

In una mostra recentemente ospitata nella Galleria d’Arte Moderna Palazzo Forti di Verona, l’artista egiziano Medhat Shafik ci ha fatto assaporare la città come luogo di emozioni, di percezioni sensoriali minime, eppure ricche di significato. Comuni, quasi poveri i materiali – legno, tela, carta, vetro, metallo – eppure lavorati con sapienza antica, con attenzione amorosa alle sfumature di colore, ai suoni, agli odori. Purtroppo le nostre città hanno conservato ben poche tracce di quelle sensazioni ineffabili; noi stessi abbiamo perduto la capacità di percepire lo spazio attraverso i cinque sensi. Abbiamo bisogno di strutture sempre più complesse, di un moto incessante e rumoroso. Per accrescere il nostro benessere, lasciamo che impresari e amministratori ingordi cancellino via via le tracce della nostra storia così da rendere i luoghi tutti uguali. Nei quali noi ci rispecchiamo ogni giorno, rischiando di dimenticare la nostra identità.

La conquista di migliori condizioni di vita può dunque tradursi in una perdita.

È quanto sperimentiamo nella pianura Padana, trasformata in megalopoli immensa, nella quale il geografo Eugenio Turri cercava un dialogo intimo, silenzioso, col paesaggio degli antenati. Dove dovremmo riscoprire il piacere di contemplare il paesaggio come bellezza, come sedimentazione di interventi umani in equilibrio con la natura.

E poi ci sono le terre lontane, come l’Asia, dove due nazioni grandi come continenti hanno intrapreso la strada dello sviluppo economico. Viaggiando – come facciamo sempre più spesso – e leggendo i resoconti dei cronisti più accorti constatiamo che le città della Cina si stanno sviluppando come le grandi metropoli dell’Occidente: irte di grattacieli, convulse di traffico, spasmodicamente tese al consumismo. E attraversando i villaggi medievali dell’India, e percorrendo le strade animate da pullman vetusti, poveri risciò, vacche sacre, cammelli, ci assale la tristezza: con l’augurabile progresso, perderemo quella che è ancora una testimonianza viva della nostra storia millenaria.

Ma il benessere materiale, la trasformazione delle condizioni di vita e del territorio debbono inevitabilmente cancellare l’identità di un popolo?

É questo l’interrogativo che ci poniamo in questo 20° numero della nostra rivista. Tenendo sempre presente il tema delle infrastrutture, che costituisce la nostra chiave di lettura. Allacciando relazioni fra le discipline. Auspicando che gli artisti recuperino la capacità di rappresentare il paesaggio e di denunciarne le perdite di senso. Esortando, ancora una volta, a formare i giovanissimi a vedere, a capire quanto le generazioni recenti non hanno saputo vedere né capire.

Tempo fa, in occasione di un convegno da noi organizzato a Venezia, abbiamo lanciato il Manifesto “Paesaggi Futuri”, per proclamare il diritto alla bellezza, affermando che “ogni nuova costruzione, al di là del suo scopo funzionale e utilitaristico, può e deve acquistare il valore di un’opera di architettura ed è auspicabile che, per rispondere alle esigenze della contemporaneità, si sviluppino nuovi linguaggi creativi, così da continuare e aggiornare la secolare tradizione del nostro Paese nel campo delle arti”.  Noi pensiamo che ogni civiltà dovrebbe interpretare il presente – nelle modalità del vivere e del costruire – in forme coerenti con la propria storia.

Pensando allo sviluppo economico – oggi, più che mai ambiguo, senza scrupoli – ci chiediamo quale paesaggio toccherà alle generazioni future. La ricchezza ucciderà la bellezza?

 

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